Dottore, mio figlio. Qualcosa non va.
Dottore, mio figlio.
Qualcosa non va..
C'è un silenzio che parla più forte di qualsiasi grido. È il silenzio negli occhi di mio figlio quando cerco il suo sguardo e trovo solo distanza. Quegli occhi che prima brillavano di curiosità, ora sembrano riflettere un universo a cui non ho accesso.
Non è più lo stesso bambino di prima. Quel sorriso spontaneo che illuminava ogni stanza si è fatto raro, come un colore che sbiadisce lentamente. È come se si fosse ritratto in un mondo tutto suo, costruendo invisibili barriere che diventano più alte con il passare dei giorni.
Quando gli parlo, la mia voce sembra dissolversi prima di raggiungerlo. Le parole cadono nello spazio tra noi senza lasciare traccia – nessun segno che siano mai arrivate a destinazione. Non riesce a sostenere il mio sguardo, come se il contatto fosse diventato insopportabile.
I suoi comportamenti sono cambiati. A volte è irrequieto, incapace di concentrarsi anche solo per pochi minuti. Altre volte si perde in attività ripetitive che sembrano rispondere a una logica imperscrutabile. Ci sono giorni in cui la sua emotività esplode in tempeste improvvise, altri in cui sembra assente, irraggiungibile.
A scuola le maestre hanno iniziato a chiamarmi più spesso. Dicono che fa fatica a seguire le lezioni, che si isola durante la ricreazione, o al contrario, che entra in conflitto con i compagni per motivi apparentemente insignificanti. Le sue capacità non emergono, nonostante io sappia quanto sia intelligente e sensibile.
Il suo sonno è diventato irregolare, l'appetito capriccioso. A volte parla di paure che non riesco a comprendere, altre volte si chiude in un mutismo che mi spaventa più di qualsiasi crisi.
Per mesi ho cercato altre spiegazioni. È solo una fase passeggera. È stanchezza. È un momento difficile che passerà. Ho costruito un castello di giustificazioni per proteggermi da quello che, nel profondo, già sapevo.
Ma le giustificazioni si sono fatte fragili, incapaci di sostenere il peso dell'evidenza che cresce giorno dopo giorno. Mi ritrovo con le spiegazioni esaurite – teorie che non spiegano più, pazienza che si consuma, speranza che vacilla.
Non voglio ammettere che qualcosa non va. Perché ammetterlo significherebbe riconoscere che non posso risolvere tutto con l'amore e la buona volontà. Significherebbe accettare che mio figlio potrebbe avere un cammino diverso da quello che avevo immaginato. Significherebbe confrontarmi con i miei limiti come genitore.
Eppure, non posso più negare l'evidenza. E paradossalmente, in questa ammissione di preoccupazione, sento nascere qualcosa di nuovo – non rassegnazione, ma il coraggio di cercare aiuto. Di chiedere un supporto professionale, sapendo che potrebbe essere l'inizio di un percorso importante.
Forse il primo passo verso la comprensione è proprio questo: riconoscere che c'è qualcosa che non comprendo. Che non posso affrontarlo da solo. Che ho bisogno di competenze specifiche che vedano ciò che io, nella mia vicinanza emotiva, potrei non riuscire a vedere.
E così, con il cuore pesante ma anche con una strana, inaspettata speranza, mi trovo a pronunciare queste parole: "Dottore, mio figlio. Qualcosa non va."